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viernes, 29 de abril de 2011

Tu sei l'unico mio Re - Per lodare la Parola



Luce del mondo nel buio del cuore
Vieni ed illuminami,
Tu mia sola speranza di vita,
Resta per sempre con me.

Sono qui a lodarti, qui per adorarti, qui
per dirti che tu sei il mio Dio
E solo Tu sei Santo, sei meraviglioso, degno
e glorioso sei per me.

Re nella storia e Re nella gloria
Sei sceso in Terra fra noi
Con umiltà il tuo trono ai lasciato
Per dimostrarci il tuo amore

Sono qui a lodarti, qui per adorarti, qui
Per dirti che tu sei il mio Dio
E solo Tu sei Santo, sei meraviglioso, degno
e glorioso sei per me.

Non so quanto è costato a te
Morire in croce li per me. (4X)

Sono qui a lodarti, qui per adorarti, qui
Per dirti che tu sei il mio Dio
E solo Tu sei Santo, sei meraviglioso, degno
e glorioso sei per me. (3X)

Non so quanto è costato a te
Morire in croce li per me. (2X)

Sono qui a lodarti, qui per adorarti, qui
Per dirti che tu sei il mio Dio

miércoles, 20 de abril de 2011

Settimana Santa per amare meglio, per amare di piú - Dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino, vescovo

La pienezza dell'amore

Il Signore, o fratelli carissimi, ha definito la pienezza dell'amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri con queste parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Ne consegue ciò che il medesimo evangelista Giovanni dice nella sua lettera: Cristo «ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», (1 Gv 3, 16) amandoci davvero gli uni gli altri, come egli ci ha amato, fino a dare la sua vita per noi.

Questo appunto si legge nei Proverbi di Salomone: Quando siedi a mensa col potente, considera bene che cosa hai davanti; e poni mano a far le medesime cose che fa lui (cfr. Pro 23, 1-2).

Ora qual è la mensa del grande e del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la vita per noi? E che significa assidersi a questa mensa, se non accostarvisi con umiltà? E che vuol dire considerare bene che cosa si ha davanti, se non riflettere, come si conviene, a una grazia sì grande? E che cosa è questo porre mano a far le medesime cose se non ciò che ho detto sopra e cioè: come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo essere disposti a dare la nostra vita per i fratelli? È quello che dice anche l'apostolo Pietro: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2, 21). Questo significa fare le medesime cose. Così hanno fatto con ardente amore i santi martiri e, se non vogliamo celebrare inutilmente la loro memoria, se non vogliamo accostarci infruttuosamente alla mensa del Signore, a quel banchetto in cui anch'essi si sono saziati, bisogna che anche noi, come loro, siamo pronti a ricambiare il dono ricevuto.

A questa mensa del Signore, perciò, noi non commemoriamo i martiri come facciamo con gli altri che ora riposano in pace, cioè non preghiamo per loro, ma chiediamo piuttosto che essi preghino per noi, per ottenerci di seguire le loro orme. Essi, infatti, hanno toccato il vertice di quell'amore che il Signore ha definito come il più grande possibile. Hanno presentato ai loro fratelli quella stessa testimonianza di amore, che essi medesimi avevano ricevuto alla mensa del Signore.

Non vogliamo dire con questo di poter essere pari a Cristo Signore, qualora giungessimo a rendergli testimonianza fino allo spargimento del sangue. Egli aveva il potere di dare la sua vita e di riprenderla, mentre noi non possiamo vivere finché vogliamo, e dobbiamo morire anche contro nostra voglia. Egli, morendo, uccise subito in sé la morte, mentre noi veniamo liberati dalla morte solo mediante la sua morte. La sua carne non conobbe la corruzione, mentre la nostra, solo dopo aver subito la corruzione, rivestirà per mezzo di lui l'incorruttibilità alla fine del mondo. Egli non ebbe bisogno di noi per salvarci, ma noi, senza di lui, non possiamo far nulla. Egli si è mostrato come vite a noi che siamo i tralci, a noi che, senza di lui, non possiamo avere la vita.

In fine, anche se i fratelli arrivano a dare la vita per i fratelli, il sangue di un martire non viene sparso per la remissione dei peccati dei fratelli, cosa che invece egli ha fatto per noi. E con questo ci ha dato non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati.

I martiri dunque, in quanto versarono il loro sangue per i fratelli, hanno ricambiato solo quanto hanno ricevuto dalla mensa del Signore.
Manteniamoci sulla loro scia e amiamoci gli uni gli altri, come Cristo ha amato noi, dando se stesso per noi.

viernes, 15 de abril de 2011

Un esempio a seguire.

Il Beato Cesare nasce il 3 febbraio 1544 a Cavallion, un paesino della Provenza, da una famiglia emigrata in Francia dall’Italia. Aveva passato la gioventù tra gli ufficiali dell’esercito di Carlo III, poi alla corte reale, e l’ambiente distolse l’animo del giovane ufficiale da ogni pratica religiosa e da ogni sentimento evangelico. 

Beato Cesare de Bus
La conversione avvenne nel 1575, dopo un travagliato cammino, segnato anche dalla preghiera e dalle penitenze di due umili persone: Antonietta Revillande e Luigi Guyot. La ricerca di un direttore spirituale, dapprima il gesuita Padre Piquet e poi il Vescovo di Cavillon, ravvivano in lui la fede imparata da sua madre e lo portarono, dopo quattro anni, al sacerdozio. L’incarico ricevuto dal Vescovo fu la predicazione alla gente più povera economicamente e culturalmente. Dai tuguri alle cattedrali per predicare alla gente e restaurare la fede e i costumi. 

Nel 1592 si viene a formare intorno a lui: padre, legislatore e moderatore, una famiglia di apostoli e successivamente di Suore; nasce la Congregazione maschile e femminile dei Dottrinari. Celebri i suoi testi catechistici a commento del catechismo del Concilio di Trento che sarà poi pubblicato col nome di Catechismo di S. Pio V e nel quale il De Bus tratta gli argomenti teologici primari visti sotto l’angolazione più efficace a secondo dell’età e della posizione dei discenti: la maggiore età, la media e la piccola. Dopo dieci anni di ministero sacerdotale viene colpito da totale cecità. Morì ad Avignone il 15 aprile 1607; la sua causa di beatificazione fu aperta dopo quattro anni dalla morte.
La sua memoria liturgica è il 15 aprile.

Così è descritto il Beato dal Papa nel messaggio alla gente convenuta nella piazza della Basilica Vaticana per la recita del Regina Coeli:
"Festa oggi per la Chiesa. Abbiamo proprio ora proclamato la beatificazione, come sapete, di Cesare De Bus, d’un uomo di mondo, d’un uomo d’armi, d’un uomo di lettere, che, “nel mezzo del cammin di nostra vita”, si fa prete e si dà tutto, con alcuni compagni, chiamati poi i Dottrinari, all’insegnamento del catechismo ai fanciulli e al popolo... ".

Un elemento che colpisce nella vita di questo Beato e che lo colloca perfettamente nel tema dell’Anno Santo, è il cammino di conversione e di penitenza che rigenerò la sua vita. Anche Egli, come la Milleret, è un uomo che ha saputo trasmettere con un suo metodo quei valori di fede in un’epoca non facile, il dopo-concilio tridentino, ma è anche un uomo impegnato nel sociale e nell’educazione.

Ricordiamo del Beato la sua attività apostolica "tra le famiglie di campagna in casolari abbandonati, dove la miseria era regina, infermiere volontario negli ospedali che a quell’epoca sono in uno stato pietoso, ammorbati dal lezzo persistente dei malati, raccoglieva ogni sera i contadini per pregare in una cappella rustica fuori delle porte della città, a Santa Maria della Pietà".

Autore: Don Marco Grenci

domingo, 10 de abril de 2011

Quaresima, V Domenica - Fare vita il Vangelo

Carissimi fratelli,
non possiamo mai pensare che la risurrezione di Lazzaro fosse semplicemente un privilegio o favore speciale di Gesù a questa famiglia amica. E lo dico perché alcuni sono convinti di questa idea e poi quando sentono di non essere ascoltati dal Signore, quando Lui non risponde a ciò che li chiediamo, scattano i risentimenti e l’allontanamento della religione.

Dal’inizio del passaggio Gesù chiarisce qual è lo scopo della morte di Lazzaro: la gloria di Dio. Perciò Lui si ferma ancora due giorni dopo sapere che il suo amico era grave. La risurrezione di Lazzaro no era un favore del’amico, ma un segno del Messia che voleva suscitare la fede nei giudei. Ed è riuscito, tanto che poi i farisei voleva uccidere Lazzaro perché per il suo medio molti credevano in Gesù.

Ho trovato alcune volte persone che portano risentimenti contro Dio per la morte di alcuno loro cari. Certo che è grande il dolore davanti a una perdita così, ma è anche certo che la morte non c’era nel piano originale di Dio. La morte è conseguenza del peccato e purtroppo la dobbiamo subire tutti, prima o poi. Quello che ci deve preoccupare non è la morte ma la salvezza delle anime.

L’unico scopo di Dio è la nostra salvezza eterna. La prove della sua priorità è che Lui ha sacrificato suo unico figlio per salvarci. Non c’è niente più importante di questo. Ciò che Gesù voleva a Betania non era risuscitare Lazzaro, ma donare la fede a tutti quelli che erano lì. Non no possiamo fare diversamente. Tutto deve essere sotto questa priorità, la salvezza deve essere sempre la meta principale.

Oggi il Signore ci insegna a cercare la nostra salvezza. Siamo quasi alla fine della quaresima e dobbiamo approfittarne gli ultimi giorni. Mettiamo la salvezza come il nostro centrale obiettivo e sicuramente la troveremmo e aiuteremo ai nostri fratelli a trovarla anche.
Fino al Cielo.

P. César Piechestein
ilpreteditutti

sábado, 9 de abril de 2011

Esseri pronti per la Pasqua - Dalle «Lettere pasquali» di Sant'Atanasio, vescovo

Il mistero pasquale riunisce nell'unità della fede coloro che sono lontani col corpo

Fratelli miei, è bello passare da una festa all'altra, passare da una orazione all'altra e, infine, da una celebrazione all'altra. È vicino ora quel tempo che ci porta e ci fa conoscere un nuovo inizio, il giorno della santa Pasqua, nella quale il Signore si è immolato. Noi ci alimentiamo del suo nutrimento e sempre deliziamo la nostra anima con il suo sangue prezioso, quasi attingendo a una sorgente. Tuttavia abbiamo sempre sete e sempre ardiamo di desiderio. Il nostro Salvatore però è vicino a chi si sente riarso e per la sua benevolenza nel giorno di festa invita a sé coloro che hanno cuori assetati, secondo la sua parola: «Se uno ha sete, venga a me e beva» (Gv 7, 37). Ma per estinguere l'arsura interiore non è necessario portare la bocca alla sorgente, basta far domanda dell'acqua alla fonte stessa. La grazia della celebrazione festiva non è limitata ad un solo momento, né il suo raggio splendente si spegne al tramonto del sole, ma resta sempre disponibile per lo spirito di chi lo desidera. Esercita una continua forza su quanti hanno già la mente illuminata e giorno e notte meditano la Sacra Scrittura. Questi sono come quell'uomo che viene chiamato beato, secondo quanto è scritto nel salmo: «Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte» (Sal 1, 1-2).

Pertanto, miei cari, Dio che per noi istituì questa festa, ci concede anche di celebrarla ogni anno. Egli che, per la nostra salvezza consegnò alla morte il Figlio suo, per lo stesso motivo ci fa dono di questa festività che spicca nettamente fra le altre nel corso dell'anno. La celebrazione liturgica ci sostiene nelle afflizioni che incontriamo in questo mondo. Per mezzo di essa Dio ci accorda quella gioia della salvezza, che accresce la fraternità. Mediante l'azione sacramentale della festa, infatti, ci fonde in un'unica assemblea, ci unisce tutti spiritualmente e fa ritrovare vicini anche i lontani. La celebrazione della Chiesa ci offre il modo di pregare insieme e innalzare comunitariamente il nostro grazie a Dio. Questa anzi è un'esigenza propria di ogni festa liturgica. È un miracolo della bontà di Dio quello di far sentire solidali nella celebrazione e fondere nell'unità della fede lontani e vicini, presenti e assenti.

jueves, 7 de abril de 2011

Servi del Vangelo, amici di Dio - Dal trattato «Contro le eresie» di sant'Ireneo, vescovo

L'amicizia di Dio

Nostro Signore, Verbo di Dio, prima condusse gli uomini a servire Dio, poi da servi li rese suoi amici, come disse egli stesso ai discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma io vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15). L'amicizia di Dio concede l'immortalità a quanti vi si dispongono debitamente.

In principio Dio plasmò Adamo non perché avesse bisogno dell'uomo, ma per avere qualcuno su cui effondere i suoi benefici. In effetti il Verbo glorificava il Padre, sempre rimanendo in lui, non solamente prima di Adamo, ma anche prima di ogni creazione. Lo ha dichiarato lui medesimo: «Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria, che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17, 5).

Egli ci comandò di seguirlo non perché avesse bisogno del nostro servizio, ma per dare a noi stessi la salvezza. Seguire il Salvatore, infatti, è partecipare della salvezza, come seguire la luce significa essere circonfusi di chiarore.

Chi è nella luce non è certo lui ad illuminare la luce e a farla risplendere, ma è la luce che rischiara lui e lo rende luminoso. Egli non dà nulla alla luce, ma è da essa che riceve il beneficio dello splendore e tutti gli altri vantaggi.

Così è anche del servizio verso Dio: non apporta nulla a Dio, e d'altra parte Dio non ha bisogno del servizio degli uomini; ma a quelli che lo servono e lo seguono egli dà la vita, l'incorruttibilità e la gloria eterna. Accorda i suoi benefici a coloro che lo servono per il fatto che lo servono, e a coloro che lo seguono per il fatto che lo seguono, ma non ne trae alcuna utilità.

Dio ricerca il servizio degli uomini per avere la possibilità, lui che è buono e misericordioso, di riversare i suoi benefici su quelli che perseverano nel suo servizio. Mentre Dio non ha bisogno di nulla, l'uomo ha bisogno della comunione con Dio.

La gloria dell'uomo consiste nel perseverare al servizio di Dio. E per questo il Signore diceva ai suoi discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16), mostrando così che non erano loro a glorificarlo, seguendolo, ma che, per il fatto che seguivano il Figlio di Dio, erano glorificati da lui. E ancora: «Voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria» (Gv 17, 24).

miércoles, 6 de abril de 2011

Quaresima é tempo per ricominciare...



Ricominciare (Gen Rosso)

Ricominciare è come rinascere,
è rivedere il sole in un mondo di libertà,
è credere che la vita
si rianima davanti agli occhi tuoi
senza oscurità;
è sapere che ancora tutto puoi sperare.

Ricominciare è come rinascere,
dall'ombra di un passato che ormai non conta più,
è ritornare semplici cercando nelle piccole cose
la felicità...
è costruire ogni attimo il tuo domani.

Ricominciare è come dire ancora sì alla vita,
per poi liberarsi e volare
verso orizzonti senza confini,
dove il pensiero non ha paura
e vedere la tua casa
diventare grande come il mondo.

Ricominciare è credere all'amore
e sentire che anche nel dolore
l'anima può cantare e non fermarsi mai.

domingo, 3 de abril de 2011

Quaresima, IV Domenica - Fare vita il Vangelo

Carissimi fratelli,

oggi il Vangelo ci mostra due tipi di ciecità, quella fisica e quella corporale. Mentre il nato cieco riceve dal Signore entrambe le due viste, i farisei che potevano vedere con il corpo, rimassero ciechi nello spirito. Mentre il nato cieco si apre al messaggio di Gesù, alla sua Divinità, alla fede, i pregiudizi , e soprattutto la superbia dei farisei fanno rimanere loro spiritualmente ciechi.

Come possiamo vedere nel Vangelo il nato cieco non conosceva dall’inizio che quello che lo aveva guarito era il Messia. Prima solo sapeva che si chiamava Gesù. Dopo affermava che era un profeta. E’ alla fine e dopo ritrovare il Signore che riceve la fede e si prostra dinanzi a Gesù. La sua umiltà li permette , a poco a poco, scoprire che era il Messia chi li aveva donato la vista.

I farisei potevano vedere con il corpo, ma erano spiritualmente ciechi. Loro pregiudizi erano come una venda che impediva loro di vedere il Signore. Addirittura avevano minacciato con la espulsione della sinagoga a chi dicesse che Gesù era il Messia. Davanti al miracolo del cieco la loro ciecità non vedeva niente. Come vedete la superbia impedisce accettare anche ciò che è evidente.

Attualmente siamo testimoni di quanto genera la superbia del uomo. Le guerre, le vendette, la ingiustizia, il divorzio, etc, sono tutti frutti della superbia. Invece l’umiltà produce concordia, pace, comunione e soprattutto santità. Capita che per vincere la superbia dobbiamo aprire il cuore a Cristo, lasciarlo entrare. Sarà Lui a farci umili, capaci di vedere spiritualmente.

Il Vangelo d’oggi ci chiama ad aprire la nostra anima all’azione dello Spirito di Dio. L’umiltà lo farà possibile. Diventeremmo come un legno nelle mani del migliore artigiano. E’ Lui chi fa le grande opere, ma sempre ci vuole la nostra disponibilità.
Fino al Cielo.

P. César Piechestein
ilpreteditutti