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domingo, 26 de febrero de 2012

Domenica I del Tempo di Quaresima - Fare vita il Vangelo

Carissimi fratelli,
sicuramente, quando eravamo bambini, tutti siamo passati per l’esperienza della punizione. Forse rinchiusi in camera o in piedi nell’angolo del soggiorno, abbiamo passato del tempo a pensare su ciò che avevamo fatto male. Magari no ci sembra un bel ricordo, però lo scopo era farci riflettere e anche pentire, con la speranza che imparassimo la lezione.

Per gli adulti non basta l’angolo, c’è bisogno di qualcosa più forte. I carceri perseguono lo stesso scopo: pentimento e cambiamento. Perdere temporalmente la libertà serve per capire che le cattive opere portano con se cattive conseguenze, tanto per chi le soffre come per chi le fa. Chiuso e in isolamento si dovrebbe riuscire a convertirsi.

Gesù è andato nel deserto e lì è rimasto quaranta giorni. Digiuno e preghiera, insieme alla solitudine per prepararsi alla sua vita pubblica. Lui non aveva niente da pentirsi, però si aveva bisogno di stare da solo, per orare al Padre. E’ questo l’esempio che noi vogliamo imitare durante la quaresima.

Tanto la punizione del bambino, come il carcere del adulto somigliano i quaranta giorni del Signore, perché lo scopo è sempre lo stesso: pentimento, penitenza e conversione.

Ma c’è anche una grande differenza. Mentre ne il bambino, ne l’adulto scelgono la propria punizione, nel caso della Quaresima non ci viene imposta. Dio ci propone un tempo di penitenza e riflessione attraverso la Chiesa, siamo invitati a viverlo, però è una decisione personale accettare.

In questa prima domenica della Quaresima dobbiamo deciderci ad approfittare ogni giorno, trovare il nostro “deserto” dove poter meditare e attraverso la preghiera e la meditazione, le mortificazioni e le opere di misericordia, produrre i frutti che Gesù aspetta da noi.
Fino al Cielo.

P. Cèsar Piechestein
ilpreteditutti

miércoles, 15 de febrero de 2012

Incarnare la Parola - Dai «Commenti sul Diatessaron» di sant'Efrem, diacono

La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita

Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.

La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l'Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).

Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallègrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. 

Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l'impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po' alla volta.

domingo, 12 de febrero de 2012

Domenica VI del Tempo Ordinario - Fare vita il Vangelo

Carissimi fratelli,
è stato impossibile per il lebbroso del Vangelo d’oggi tacere la grazia che aveva ricevuto dal Signore. La sua testimonianza è diventata così forte che Gesù non poteva più apparire in pubblico perché tutti volevano toccarlo e ricevere dei favori. Ma perché non è riuscito a obbedire, perché non è rimasto in silenzio come glielo aveva chiesto il Signore.

Già nella prima lettura ci fanno capire quale era lo stile di vita che aspettava a un malato di lebbra. Doveva abitare fuori l’accampamento da solo, e se si avvicinava doveva farlo urlando “Immondo, immondo”. Era una vita di grande sofferenza e umiliazione. E’ di questa vita che è stato riscattato l’uomo del Vangelo d’oggi. 

Quando nella seconda lettura San Paolo ci ricorda che tutto ciò che facciamo lo dobbiamo fare per glorificare Dio, possiamo capire ciò che fatto il ex lebbroso. L’unica maniera di ripagare a Dio il bene ricevuto era farlo conoscere, magnificare il suo nome mostrando il miracolo accaduto.

La domanda che ci dobbiamo fare e se anche noi diamo gloria a Dio con la nostra vita. Sicuramente possiamo fare un elenco abbastanza lungo di grazie ricevute da Dio, ma sarà anche così lungo l’elenco delle volte che lo abbiamo glorificato. 

E non è che Lui abbia bisogno di essere glorificato, non per se stesso. Glorificare Dio è un bene per il prossimo, perché è così che tutti possono conoscere il potere e soprattutto l’amore di Gesù. Sempre attraverso la testimonianza dei cristiani è che altri uomini hanno raggiunto la fede, hanno creduto al Vangelo. Questa è l’importanza di glorificare il Signore.

Oggi dobbiamo fare come il lebbroso, non possiamo tacere. Se non tacciamo, parleranno le pietre.
Fino al Cielo.

P. César Piechestein
ilpreteditutti

jueves, 9 de febrero de 2012

Gesú e Isacco - Dalle «Omelie sulla Genesi» di Origene, sacerdote

Il sacrificio di Abramo

«Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme» (Gn 22, 6). Isacco che reca la legna per il proprio sacrificio è figura di Cristo che portò la sua croce, e tuttavia portare la legna per l'olocausto è ufficio del sacerdote. Così egli diventa vittima e sacerdote. Ma anche l'espressione «proseguirono tutt'e due insieme» si riferisce allo stesso simbolo. Poiché mentre Abramo che si accinge a compiere il sacrificio porta fuoco e coltello, Isacco non cammina dietro di lui, ma a pari passo, perché si comprenda che egli condivide con lui il sacerdozio.

Che cosa viene ora? Disse Isacco a suo padre Abramo: Padre (cfr. Gn 22, 7). Questa voce del figlio in un momento simile è la voce della tentazione. Infatti come pensi tu che quel giovinetto, in procinto di essere immolato, non abbia con la sua voce sconvolto il cuore paterno? E sebbene Abramo fosse alquanto duro per la sua fede, rispose tuttavia con voce che tradiva l'affetto paterno: «Che vuoi, figlio?». E lui: «Ecco qui», disse, «il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio» (Gn 22, 7-8).

Mi commuove questa risposta di Abramo, così delicata e prudente. Non so che cosa egli prevedesse nella sua mente, poiché non parla al presente ma al futuro: «Dio provvederà l'agnello». Al figlio che chiedeva in presente dà la risposta in futuro; poiché lo stesso Signore avrebbe provveduto l'agnello nella persona di Cristo.

«Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: Abramo, Abramo. Rispose: Eccomi. L'angelo disse: Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio» (Gn 22, 10-12). Confrontiamo queste parole con ciò che dice l'Apostolo riguardo a Dio: «Egli non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato alla morte per noi tutti» (Rm 8, 32). Puoi vedere così che Dio gareggia con gli uomini nella sua straordinaria liberalità. Abramo offrì a Dio il figlio mortale, che però non sarebbe morto allora, mentre Dio consegna alla morte per tutti noi il suo Figlio immortale. «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio» (Gn 22, 13). Abbiamo detto, in precedenza, mi pare, che Isacco prefigurava il Cristo; ma anche l'ariete sembra che in qualche modo sia figura di Cristo. Vale la pena riflettere un po' sul modo con cui ambedue si possono riferire a Cristo: Isacco che non fu immolato e l'ariete che fu offerto in sacrificio.

Cristo è il Verbo di Dio, ma «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1, 14). Cristo dunque patisce, ma nella carne; e incontra la morte, ma nella carne, della quale l'ariete era una figura, come anche Giovanni diceva: «Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1, 29). Ma il Verbo conservò la sua impassibilità che è propria dello Spirito di Cristo, di cui Isacco è la figura. Perciò egli è vittima e pontefice secondo lo spirito poiché colui che offre la vittima al Padre secondo la carne, è lui stesso offerto sull'altare della croce.

domingo, 5 de febrero de 2012

Domenica V del Tempo Ordinario - Fare vita il Vangelo

Carissimi fratelli,
La compassione è un sentimento molto legato al amore, alla carità. Compatire significa sentire-con, essere capace di mettersi nei panni degli altri. Ma non è soltanto il sentimento ma ciò che ti muove ad agire per aiutare a chi soffre. Gesù si fece in tutto uguale a noi tranne il peccato. Condivide con noi tutti i nostri sentimenti ed emozioni, tranne quelle peccaminose. Allora era logico che davanti alla sofferenza della suocera di Pietro si mettessi a guarirla. Ebbe compassione di lei e di tutta la sua famiglia.

E’ anche importante sottolineare come anche lei risponde a questa carità, e subito si mette a servire. Amore con amore si paga. In questa donna troviamo un esempio che dobbiamo imitare. San Paolo nella seconda lettura ci conferma quest’affermazione. Lui insiste che deve servire e farlo predicando il Vangelo.

Tutti noi abbiamo delle necessità, preoccupazioni o problemi per i quali preghiamo l’aiuto di Dio. Speriamo in Lui, aspettiamo una risposta che ci permetta superare ciò che ci fa soffrire. Forse davanti a questo brano del Vangelo ci possiamo domandare: perché a lei le stata tolta la sofferenza a me no? Sicuramente dobbiamo pensare bene, magari questo non è il ragionamento più giusto.

Ogni uno di noi è stato guarito della più grande malattia, del male maggiore che ci condannava alla sofferenza eterna. Per guarirci Gesù sacrificò la sua vita sulla Croce. Chi è stato capace di capire questa grande verità, come lo fece San Paolo, si impegnerà ogni giorno a ringraziare un dono così grande. E secondo l’Apostolo dei gentili, la maniera più eccellente si servire Dio è continuare la sua opera. Quindi la domanda giusta sarebbe: come posso io servire?

Basta guardare un po’ la realtà del mondo di oggi per confermare l’urgente necessità da Dio. A la radice de ogni sofferenza, di ogni ingiustizia, è il peccato. Non basta con sentire compassione davanti al dolore altrui, dobbiamo intervenire per farlo smettere. Soltanto Gesù può portare tutto il bene, quello eterno, e noi cristiani siamo chiamati a farlo conoscere. E’ urgente unirci alla missione della Chiesa, solo così potremmo ridare al mondo la pace che perse tanto tempo fa.
Fino al Cielo.

P. César Piechestein
ilpreteditutti